Moisés Naím

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Riscrivere l'agenda/ Le priorità dei cittadini cambiano il potere

Alessandro Campi / Il Messaggero

E se alla fine di quest'emergenza da pandemia ci scoprissimo tutti meno liberi e tutti più sorvegliati? La preoccupazione in effetti circola e ha un fondo realistico. C'è chi addirittura paventa, nelle more dello stato d'emergenza ovunque dichiarato dai governi, il pericolo d'un colpo di Stato legale su scala planetaria: la salvezza della vita (bene essenziale e inalienabile) in cambio di un'obbedienza incondizionata a regole collettive che rischiano di farsi, anche quando sarà passata la grande paura, sempre più stringenti e repressive. E che i governi si riterranno legittimati a imporre anche fuori dalle normali procedure costituzionali ogni qual volta dovesse profilarsi una qualunque crisi. Essendosi ormai capito che di questi allarmi sanitari ne avremo sicuramente ancora.

Altri, con toni appena meno drammatici, immaginano invece una deriva silenziosamente illiberale delle grandi democrazie, nel senso di una progressiva assuefazione delle masse a sempre minori libertà private e pubbliche.

In effetti sorprende quasi la disponibilità, con alcune eccezioni figlie dell'irrazionale, con la quale i cittadini hanno accettato il confinamento coatto nelle proprie abitazioni e la sospensione di praticamente tutte le loro libertà fondamentali: abitudini e comportamenti inveterati divenuti d'un colpo oggetto di rimpianto o, al massimo, di parodia sulla rete. Ma quando c'è in gioco la vita...

Così come colpisce la metamorfosi mentale che sembra aver investito ogni area politica e di pensiero: persino la sinistra un tempo libertaria e nemica di ogni autorità nulla ha eccepito all'utilizzo dei militari nelle strade e agli appelli all'ordine che sono diventati la regola della comunicazione pubblica in queste settimane. La paura, istinto primario, si è mangiata così facilmente anni di battaglie ideali, di proclami politici e di buone intenzioni morali?

L'impressione, per dirla altrimenti, è che quello in corso sia non si capisce quanto involontario ed occasionale, oppure quanto addirittura desiderato e pianificato un esperimento su scala planetaria di disciplinamento sociale, che alla fine ci consegnerà un Potere (interno ed esterno, nazionale e globale) quanto mai concentrato e pervasivo, che nel prossimo futuro beninteso sempre per il nostro bene e la nostra salute tutto potrà controllare, verificare, imporre e proibire, grazie anche ad una tecnologia che certi controlli ormai li rende facili e per davvero totalizzanti.

Ma crediamo davvero a questo scenario post-orwelliano? Le cose forse stanno diversamente. Anzi, all'opposto di questa sorta di neo-totalitarismo incipiente che preoccupa ogni genuino liberale (gli amici o estimatori dei dispotismi asiatici saranno invece ben contenti). Nel senso che se qualcosa ci dice il modo con cui è stata sinora affrontata l'emergenza sanitaria nella gran parte dei Paesi, è che mai s'erano visti così tanti leader al mondo dotati sulla carta d'ogni potere formale e d'ogni relativa capacità di previsione calcolo e intervento dimostratisi capaci solo d'improvvisare, di cambiare idea in ogni momento e di inseguire affannosamente gli accadimenti. 

Piuttosto che un potere che, sotto la spinta dell'emergenza, tende a farsi unico, concentrato e illimitato, e come tale potenzialmente arbitrario, che punta ad accrescere le sue competenze fuori dai normali controlli, parrebbe quello che in questi frangenti dovrebbe salvarci la vita o almeno garantirci una morte dignitosa un potere nudo, confuso, confusionario e, al dunque, vuoto e relativamente impotente. Un potere che, come si è visto in queste drammatiche settimane, si adatta faticosamente agli eventi, ma è del tutto incapace di affrontarli con determinazione. Non parliamo poi di anticiparli o di prevederli. Ed è davvero strano, se non desolante. Veniamo da due decenni di allarmi sanitari piccoli e grandi per poi scoprire che nessuno s'era preparato ad una eventualità estrema come quella che si è repentinamente prodotta. Si può avere paura d'un simile potere? Certo, della sua insipienza e debolezza, non del suo essere chissà quanto bulimico, pervasivo o capace di tutto. Con buona pace dei complottisti, tornati attivissimi in questo frangente.

Viene allora da chiedersi quali siano le ragioni di una simile impreparazione, che ha portato molti leader e governi a sottovalutare inizialmente la crisi sanitaria (anche quando era ormai conclamata) per poi affrontarla in modo confuso e contraddittorio, senza alcuna capacità di pianificazione, senza alcun vero piano o programma. E senza alcuna capacità di coordinamento tra di essi, cosa che in effetti colpisce nell'età cosiddetta della globalizzazione e dell'interdipendenza. Ma di cosa parlano i nostri capi di Stato e di governi sulla carta i signori del mondo quando si incontrano nei summit internazionali? Del tempo che fa e del buon cibo?

Potrebbe dipendere, questo misto di superficialità e debolezza, dal fatto che da due-tre decenni abbiamo leader e classi di governo la cui preoccupazione fondamentale, soprattutto nelle democrazie più avanzate, è stata quella di guadagnarsi, giorno dopo giorno, il gradimento potenziale degli elettori, sempre lisciati per il verso del pelo. Altro che pianificare il futuro, quando saranno altri a governare, o prevedere il peggio che nella vita degli uomini può sempre arrivare. L'importante è piacere e persuadere, oggi, per il domani si vedrà. Una visione, come dire, cosmetica e anti-tragica del governo delle società, che si è visto cosa può produrre quando si realizzano condizioni impreviste e straordinarie.

Ma potrebbe anche dipendere dal fatto che abbiamo del potere un'immagine probabilmente falsa e obsoleta: come la capacità di pochi, comunque scelti e selezionati, di fare molto, secondo la loro volontà, ricorrendo ad ogni mezzo possibile. Laddove il potere nelle società contemporanee si è invece talmente parcellizzato e diffuso da aver perso gran parte della sua tradizionale rilevanza o incidenza. Del potere inteso in modo convenzionale resta forse la pompa e la forma, ma la sua sostanza è transitata altrove e s'è distribuita in mille rivoli. La fine del potere: è il titolo di un bel libro di Moisés Naím di pochi anni fa, che forse andrebbe riletto.

Fatto sta che dalla politica (cioè dall'alto, dal potere sovrano per eccellenza) in queste settimane da tregenda tutto sono venute meno che indicazioni univoche, che risposte risolutive e come tali minimamente tranquillizzanti. Quello che continuiamo a chiamare il modello Italia offre un buon esempio di questo succedersi e incrociarsi di decisioni dell'ultimo momento, di messaggi incoerenti, di catene di comando precarie, di conflitti tra poteri (governo centrale, regioni, agenzie, enti intermedi d'ogni tipo) incapaci di coordinarsi e di marciare in maniera univoca, senza inutili contrasti. Basti vedere l'anarchia delle regioni in casa nostra rispetto al potere centrale. Ma negli altri Paesi dagli Stati Uniti alla Spagna, dal Brasile alla Gran Bretagna non è andata meglio: ognuno s'è mosso secondo le sue ristrette convenienze, tra conferme, smentite e ripensamenti, coi comandanti in capo che hanno dato l'impressione di saperne quanto i cittadini comuni. Per non dire dell'atteggiamento ondivago e imbambolato dell'Europa, confermatasi un mostri di attendismo e di egoismi concorrenti.

Ci aspetta forse una dittatura planetaria o un'onda di autoritarismo indotta dalla paura, ma sarà basata se queste sono le sconfortanti premesse sull'incompetenza e sullo spirito d'improvvisazione di un potere che non sembra sostenuto da altro che dall'ambizione di chi lo possiede senza nemmeno sapere come utilizzarlo per quel poco che ancora conta.